Categoria: XII secolo

  • Guillem de Berguedà, Cavalier un chantar cortés

    Guillem de Berguedà, Cavalier un chantar cortés

  • La vida di Guillem de Cabestany

    La vida di Guillem de Cabestany

    Guillems de Cabestaing si fo us cavalliers de l’encontrada de Rossillon, que confina ab Cataloigna et ab Narbones. Mout fo avinens hom de la persona e mout presatz d’armas, e de cortesia e de servir. Et avia en la soa encotrada una dompna que avia nom Madona Soremonda, moiller d’En Raimon de Castel Rossillon, que era mout gentils e rics e mals e braus e fers et orgoillos. En Guillems de Cabestaing si amava la dompna per amor e chantava de lieis e·n fazia sas chanssos. E la dompna, qu’era ioves e gaia e gentils e bella, si·l volia ben mais qe a ren del mon. E fon dich so a·N Raimon de Castel Rossillon; et el, cum hom iratz e gelos, enqeric tot lo faich e saup que vers era. E fetz gardar la moiller.
    E qan venc un dia Raimons de Castel Rossillon trobet paissan Guillem de Cabestaing ses gran compaignia et aucis lo. E fetz li traire lo cor del cors e fetz li taillar la testa; e·l cor fetz portar a son alberc, e la testa atressi. E fetz lo cor raustir e far apebrada, e fetz lo dar a maniar a la moiller. E qan la dompna l’ac maniat, Raimons de Castel Rossillon li dis: «Sabetz vos so que vos avetz maniat?», et elle dis: «Non, si non que mout es estada bona vianda e saborida». Et el li dis q’el era lo cors d’En Guillem de Cabestaing so que ella avia maniat, et aso q’ella·l crezes mieils si fetz aportar la testa denan lieis; e qan la dompna vic so et auzic, ella perdet lo vezer e l’auzir. E qand ella revenc si dis: «Seigner ben m’avetz dat si bon maniar que iamais non maniarai d’autre». E qand el auzic so, el cors ab s’espaza e volc li dar sus en la testa, et ella cors ad un balcon e laisset se cazer ios; et enaissi moric.
    E la novella cors per Rossillon e per tota Cataloigna: q’En Guillems de Cabestaing e la dompna eran enaissi malamen mort, e q’En Raimons del Castel Rossillon avia donat lo cor d’En Guillem a maniar a la dompna. Mout fo grans tristessa per totas las encontradas. E·l reclams venc denan lo rei d’Aragon, que era seigner d’En Raimon de Castel Rossillon e d’En Guillem de Cabestang. E venc s’en a Perpignan en Rossillon, e fetz
    venir Raimon de Castel Rossillon denan si. E qand fo vengutz, si·l fetz prendre e tolc li totz sos chastels e·ls fetz desfar, e tolc li tot qant avia, e lui enmenet en preison. E pois fetz penre Guillem de Cabestaing e la dompna, e fetz los portar a Perpignan e metre en un monumen denan l’uis de la gleisa, e fetz desseignar
    de sobre·l monumen cum ill eron estat mort, et ordenet per tot lo comtat de Rossillon que tuich li cavallier e las dompnas lor vengesson far anoal chascun an. E Raimons de Castel Rossillon moric en la preison del rei.

    Traduzione

    Guillem de Cabestany era un cavaliere della contea del Roussillon, che confina con la Catalogna e il Narbonese. Era di fisico molto bello ed era molto stimato per le sue capacità guerresche, la cortesia e lo spirito di servizio.

    Nella sua contea viveva una signora chiamata Madonna Soremonda, moglie di Raimondo de Castell Rosselló, che era un uomo molto nobile e ricco, cattivo e arrogante, feroce e orgoglioso. Guillem de Cabestany amava la dama d’amore sincero e cantava e componeva le sue canzoni su di lei. E la signora, che era giovane, allegra, gentile e bella, lo desiderava più di ogni altra cosa al mondo. Questa cosa fu detta a Ramon de Castell Rosselló e lui, da uomo tristo e geloso, indagò sull’intero fatto, venne a sapere che era vero e fece imprigionare sua moglie.

    Accadde un giorno che Ramon de Castell Rosselló trovò Guillem de Cabestany che andava in giro senza molti compagni e lo uccise; gli fece togliere il cuore dal corpo e tagliare la testa; poi portò a casa sua il cuore e anche la testa; fece arrostire il cuore, fece fare una salsa peverata e lo fece mangiare a sua moglie. Quando la signora lo ebbe mangiato, Ramon de Castell Rosselló le disse: “Sai cosa hai mangiato?”. E lei: “No, ma mi sembrava un cibo buonissimo e molto saporito”. Allora le disse che aveva mangiato il cuore di Guillem de Cabestany e, affinché ci credesse, le portò davanti la testa. Quando la signora vide e udì ciò, perse la vista e l’udito. Quando ritornò disse: “Signore, mi hai dato un cibo così buono che non mangerò mai più”. Quando egli sentì questa cosa, la rincorse brandendo la spada, con l’intenzione di ferirla sul capo, ma lei corse su un balcone e si lasciò cadere, e così morì.

    Allora per il Roussillon e per tutta la Catalogna corse la notizia che Guillem de Cabestany e la signora erano morti in maniera così truce e che Ramon de Castell Rosselló aveva dato da mangiare alla signora il cuore di Guillem. C’era gran tristezza in tutte le contee e la lamentela raggiunse anche il re d’Aragona, che era signore di Ramon de Castell Rosselló e di Guillem de Cabestany. Il re andò a Perpignan, nel Rossiglione, e fece portare al suo cospetto Ramon de Castell Rosselló; quando questi arrivò, lo fece imprigionare, confiscò e fece distruggere tutti i suoi castelli, prese tutto ciò che aveva e lo fece condurre in prigione. E poi mandò a prendere Guillem de Cabestany e la signora e li fece condurre a Perpignan e li fece mettere in un monumento davanti alla porta della chiesa; poi fece scolpire sul monumento come erano morti e ordinò che tutti i cavalieri e le dame di tutta la contea del Roussillon venissero a celebrare quel fatto ogni anno. E Ramon de Castell Rosselló morì nella prigione del re.

    Dante Alighieri, Vita nova

    Poi che fuoro passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto di questa gentilissima, ne l’ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine.

    L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puosimi a pensare di questa cortesissima.

    E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: “Ego dominus tuus”.

    Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare.

    E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole: “Vide cor tuum”.

    E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente.

    Appresso ciò poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato.

    E mantenente cominciai a pensare, e trovai che l’ora ne la quale m’era questa visione apparita, era la quarta de la notte stata; sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte.

    Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia:

    A ciascun’alma presa.

    A ciascun’alma presa e gentil core
    nel cui cospetto ven lo dir presente,
    in ciò che mi rescrivan suo parvente,
    salute in lor segnor, cioè Amore.

    Già eran quasi che atterzate l’ore
    del tempo che onne stella n’è lucente,
    quando m’apparve Amor subitamente,
    cui essenza membrar mi dà orrore.

    Allegro mi sembrava Amor tenendo
    meo core in mano, e ne le braccia avea
    madonna involta in un drappo dormendo.

    Poi la svegliava, e d’esto core ardendo
    lei paventosa umilmente pascea:
    appresso gir lo ne vedea piangendo.

    Questo sonetto si divide in due parti; che ne la prima parte saluto e domando risponsione, ne la seconda significo a che si dee rispondere. La seconda parte comincia quivi:Già eran.

    A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia:Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato.

    Lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici.

    Giovanni Boccaccio, Decameron, Giornata IV, Novella 9, confrontata con le 4 versioni della vida di Guillem de Cabestany

    A = FbIK

    B = ABN2

    C = HR

    D = P

    Messer Guiglielmo [vs Raimon ABCD] Rossiglione [D de Rosillion vs de Castel Rossilhon ABC] dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno [Capestanh o Cabestanh ABC Castaing o Cabstaing D] ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta da una alta finestra [balcon ABCD] in terra e muore e col suo amante è sepellita.

    Essendo la novella di Neifile finita, non senza aver gran compassion messa in tutte le sue compagne, il re, il qual non intendeva di guastare il privilegio di Dioneo, non essendovi altri a dire, incominciò.

    Emmisi parata dinanzi, pietose donne, una novella alla qual, poi che così degli infortunati casi d’amore vi duole, vi converrà non meno di compassione avere che alla passata, per ciò che da più furono coloro a’ quali ciò che io dirò avvenne, e con più fiero accidente che quegli de’ quali è parlato.

    Dovete adunque sapere che, secondo che raccontano i provenzali, in Provenza furon già due nobili cavalieri, de’ quali ciascuno e castella e vassalli aveva sotto di sé [qui rapporto paritetico, Guillem è vassallo di Raimon in ACD, in B indeterminato], e aveva l’uno nome messer Guiglielmo Rossiglione e l’altro messer Guiglielmo Gardastagno; e per ciò che l’uno e l’altro era prod’uomo molto nell’arme [Guillem: prezatz d’armas AB bos cavaliers d’armas C, manca D Raimon: mals e braus e fers e orgoillos AB] s’amavano assai [D: son compagnon qe tant amava] e in costume avean d’andar sempre ad ogni torniamento o giostra o altro fatto d’arme insieme e vestiti d’una assisa.

    E come che ciascun dimorasse in un suo castello e fosse l’un dall’altro lontano ben diece miglia, pur avvenne che, avendo messer Guiglielmo Rossiglione una bellissima e vaga donna per moglie [D: ac per meller ma dompna Margarida, la plus bella dompna c’om saupes en aqel temps], messer Guiglielmo Guardastagno fuor di misura, non ostante l’amistà e la compagnia che era tra loro, s’innamorò di lei [AB: si amava la dompna; C: Et enamoret se d’una gentil dompna; D: Amors volc assalir ma dompna Margarida] e tanto, or con uno atto e or con uno altro fece, che la donna se n’accorse [riassume D, con ruoli invertiti. D: qe s’en era perceubutz]; e conoscendolo per valorosissimo cavaliere [D: Adonc s’esforzet Guillem de mais valer], le piacque, e cominciò a porre amore a lui, in tanto che niuna cosa più che lui disiderava o amava, né altro attendeva che da lui esser richiesta; il che non guari stette che avvenne, e insieme furono e una volta e altra, amandosi forte.

    E men discretamente insieme usando, avvenne che il marito se n’accorse [D: Et duret non longamen, qe lausengers, cui Dieus aïr, commenseron de s’amor parlar, e anar devinan per las chansos qe Guillem fasia, disen q’el s’etendia en ma dompna Margarida. Tan annero disen, e jus e sus, c’a l’aurella de mon segnor Raimon venc] e forte ne sdegnò, in tanto che il grande amore che al Guardastagno portava in mortale odio convertì [D: Adonc li saup trop mal, e trop greu fo iratz, per so c’a perdre li avinia son compagnon qe tant amava]; ma meglio il seppe tener nascoso che i due amanti non avevano saputo tenere il loro amore, e seco diliberò del tutto d’ucciderlo.

    Per che, essendo il Rossiglione in questa disposizione, sopravenne che un gran torneamento si bandì in Francia, il che il Rossiglione incontanente significò al Guardastagno, e mandogli a dire che, se a lui piacesse, da lui venisse e insieme diliberrebbono se andar vi volessono e come [Un jorn avenc qe Guillem era anat a esparvier ab un escuier solamen. Et mon segnor Raimon lo fetz demandar on era; et un valletz li dis c’anatz era a esparvier]. Il Guardastagno lietissimo rispose che senza fallo il dì seguente andrebbe a cenar con lui.

    Il Rossiglione, udendo questo, pensò il tempo esser venuto di poterlo uccidere; e armatosi il dì seguente con alcuno suo famigliare montò a cavallo, e forse un miglio fuori del suo castello in un bosco si ripose in agguato, donde doveva il Guardastagno passare; e avendolo per un buono spazio atteso, venir lo vide disarmato con due famigliari appresso disarmati[A: Raimon de Castel Rossillon troba passan Guillem senes gran compaignia], sì come colui che di niente da lui si guardava [D: Mantenent se vai armar d’armas celadas e si fetz amenar son destrier, et a pres tot sol son chamin vas cella part on Guillem era annat. Tan chavalguet qe trobet lo]; e come in quella parte il vide giunto dove voleva, fellone e pieno di mal talento con una lancia sopra mano gli uscì addosso gridando:

    – Traditor, tu se’ morto [D, ma parla la donna: et apelet lo fals e traïtor]; – e il così dire e il dargli di questa lancia per lo petto fu una cosa.

    Il Guardastagno, senza potere alcuna difesa fare o pur dire una parola, passato di quella lancia, cadde e poco appresso morì. I suoi famigliari, senza aver conosciuto chi ciò fatto s’avesse, voltate le teste de’ cavalli, quanto più poterono si fuggirono verso il castello del lor signore.

    Il Rossiglione, smontato, con un coltello il petto del Guardastagno aprì e colle proprie mani il cuor gli trasse, e quel fatto avviluppare in un pennoncello di lancia, comandò ad un de’ suoi famigliari che nel portasse [A: e trais li lo cor del cors; e fetz lo portar a un escuier a son alberc]; e avendo a ciascun comandato che niun fosse tanto ardito che di questo facesse parola, rimontò a cavallo, ed essendo già notte al suo castello se ne tornò.

    La donna, che udito aveva il Guardastagno dovervi esser la sera a cena e con disidero grandissimo l’aspettava, non vedendol venire si maravigliò forte e al marito disse:

    – E come è così, messere, che il Guardastagno non è venuto?

    A cui il marito disse:

    – Donna, io ho avuto da lui che egli non ci può essere di qui domane; – di che la donna un poco turbatetta rimase.

    Il Rossiglione, smontato, si fece chiamare il cuoco e gli disse:

    – Prenderai quel cuor di cinghiare [C(R): per so car la don s’agradava fort de cor de salvaisina] e fa’che tu ne facci una vivandetta la migliore e la più dilettevole a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, me la manda in una scodella d’argento.

    Il cuoco, presolo e postavi tutta l’arte e tutta la sollicitudine sua, minuzzatolo e messevi di buone spezie assai, ne fece uno manicaretto troppo buono.

    Messer Guiglielmo, quando tempo fu, con la sua donna si mise a tavola [C(H): fetz lo portar a la taula]. La vivanda venne, ma egli per lo malificio da lui commesso, nel pensiero impedito, poco mangiò.

    Il cuoco gli mandò il manicaretto, il quale egli fece porre davanti alla donna, sé mostrando quella sera svogliato, e lodogliele molto.

    La donna, che svogliata non era, ne cominciò a mangiare e parvele buono; per la qual cosa ella il mangiò tutto.

    Come il cavaliere ebbe veduto che la donna tutto l’ebbe mangiato, disse:

    – Donna, chente v’è paruta questa vivanda? [C: demandet li si era estat bons a manjar]

    La donna rispose:

    – Monsignore, in buona fè ella m’è piaciuta molto.[A: mout es estada bona vianda e saborida]

    – Se m’aiti Iddio, – disse il cavaliere – io il vi credo, né me ne maraviglio se morto v’è piaciuto ciò che vivo più che altra cosa vi piacque.

    La donna, udito questo, alquanto stette; poi disse:

    – Come? Che cosa è questa che voi m’avete fatta mangiare?

    Il cavalier rispose:

    – Quello che voi avete mangiato è stato veramente il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno, il qual voi come disleal femina tanto amavate; e sappiate di certo ch’egli è stato desso, per ciò che io con queste mani gliele strappai, poco avanti che io tornassi, del petto.

    La donna, udendo questo di colui cui ella più che altra cosa amava, se dolorosa fu non è da domandare; e dopo al quanto disse:

    – Voi faceste quello che disleale e malvagio cavalier dee fare; ché se io, non sforzandomi egli, l’avea del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena portare. Ma unque a Dio non piaccia che sopra a così nobil vivanda, come è stata quella del cuore d’un così valoroso e così cortese cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai altra vivanda vada [D: era estat si si bons e saboros qe ja mais autre manjars ni autres beures no.l tolrian sabor de la bocca qe.l cor d’En Guillem li avia laissat].

    E levata in piè, per una finestra [D: uis d’un balcon] la quale dietro a lei era, indietro senza altra diliberazione si lasciò cadere [ABCD: se laisset cazer (e varianti)].

    La finestra era molto alta da terra, per che, come la donna cadde, non solamente morì, ma quasi tutta si disfece [CD: et esmodegase el col].

    Messer Guiglielmo, vedendo questo, stordì forte, e parvegli aver mal fatto; e temendo egli de’ paesani e del conte di Proenza, fatti sellare i cavalli, andò via.

    La mattina seguente fu saputo per tutta la contrada come questa cosa era stata [CD: Aqest mals fo saubutz per tota la terra (e varianti)] : per che da quegli del castello di messer Guiglielmo Guardastagno e da quegli ancora del castello della donna con grandissimo dolore e pianto [D: Grans tristessa e grans dolors fo]furono i due corpi ricolti e nella chiesa del castello medesimo della donna in una medesima sepoltura fur posti, e sopr’essa scritti versi significanti chi fosser quegli che dentro sepolti v’erano e il modo e la cagione della lor morte [B: fetz deseignar desobre.l monumen cum ill eron estat mort].

    Bibliografia

    Luciano Rossi,Il cuore, mistico pasto d’amore:dal  Lai Guirun al Decameron, inStudi provenzali e francesi‘ 82, L’Aquila 1983, pp. 28-128.

    Leonardo Terrusi, Ancora sul ‘cuore mangiato’: riflessioni su Decameron IV, 9, con una postilla doniana, in “La parola del testo”, 2 (1998): 49–62.

    Isabel de Riquer, El corazón devorado: una leyenda desde el siglo XII hasta nuestros días, Madrid, Siruela.

    Il racconto rielaborato in catalano moderno

  • Guillem de Berguedà, Cel so qui capol’e dola

    Guillem de Berguedà, Cel so qui capol’e dola

    I.
    Cel so qui capol’ e dola:
    tant soi cuynde e avinen
    si que destral ni exola
    no•y deman ni ferramen;
    qu’esters n’ay bastidas cen,
    que maestre de l’escola
    so, e am tan finamen
    que per pauc lo cor no•m vola.

    II.
    Si Deus me do alegranza
    e gaug de mon Per-Cabal,
    tant hi ferray de ma lança
    entre Qaresm’ e Nadal
    qu’En Lenga-Moza-de-Sal
    n’aura enuig e pesança,
    e tuit mei amich coral
    n’auran gaug e alegrança.

    III.
    Si mon caval trot’ a lega,
    no m’en fal, so•us assegur,
    qu’en tal luec no l’acossega,
    si no trop qui m’en atur.
    Que no•y ha auzberch tan dur
    que mon bran d’acer cossega
    que jos la carn no•l pejur,
    si a Deu merce no pregha.

    IV.
    Un’ e doas e tres et quatre,
    cinc e seis e set e uit,
    m’avenc l’autrer a combatre
    ab ma osta tota nuit,
    e si•m trobes flac ni buit,
    per la fe que•us dey, bel fratre,
    io agra tost mon pan cuit,
    e puis fora fins de batre.

    V.
    Ma hosta no fo pas lota,
    e parec o al montar:
    si no•m tengues a sa cota,
    viatz m’agra fait tombar,
    c’axi•m fazia plombar
    com si fos una pilota;
    per que fay mal cavalgar
    en bestia c’axi trota.

    Traduzione

    Colui son che pialla e sgrossa:
    tanto son grazioso e bello
    che né scure né accetta
    chiedo, e nemmeno ferramenta;
    del resto ne ho imbastite cento,
    ché maestro della scuola
    sono e amo tanto finemente
    che a momenti il cuor s'invola.

    Se Dio mi dona allegria
    e gioia del mio Per-cabal,
    ferirò tanto di lancia
    fra Quaresima e Natale
    che don Lingua-Mozza-di-Sale
    ne avrà noia e tristezza
    e tutti i miei amici del cuore
    ne avranno gioia e allegria.

    Se il mio cavallo trotta a lega,
    non mancherò, ve lo assicuro,
    di condurlo presso quel luogo,
    se non trovo chi mi fermi.
    Ché non c'è usbergo tanto duro
    da impedire al mio brando d'acciaio
    di far danno giù alla carne,
    se a Dio non domanda pietà.

    Uno, due tre e quattro,
    cinque e sei e sette e otto,
    ho combattuto l'altro giorno
    con la mia ospite tutta la notte
    e se mi avesse trovato fiacco o vuoto,
    per la fede che vi debbo, bel Fratello,
    avrei tosto cotto il pane
    e sarei fine battitore.

    La mia ospite non fu pigra,
    e lo mostrò al montare:
    se non mi fossi retto alla cotta
    subito mi avrebbe fatto cadere,
    mi avrebbe fatto piombare
    come fossi una palla;
    perché non si può cavalcare
    una bestia che trotta così.

    Testo a fronte

    Cel so qui capol’ e dola:Colui son che pialla e sgrossa:
    tant soi cuynde e avinentanto son grazioso e bello
    si que destral ni exolache né scure né accetta
    no•y deman ni ferramen;chiedo, e nemmeno ferramenta;
    qu’esters n’ay bastidas cen,del resto ne ho imbastite cento,
    que maestre de l’escolaché maestro della scuola
    so, e am tan finamensono e amo tanto finemente
    que per pauc lo cor no•m vola.che a momenti il cuor s’invola.
    Si Deus me do alegranzaSe Dio mi dona allegria
    e gaug de mon Per-Cabal,e gioia del mio Per-cabal,
    tant hi ferray de ma lançaferirò tanto di lancia
    entre Qaresm’ e Nadalfra Quaresima e Natale
    qu’En Lenga-Moza-de-Salche don Lingua-Mozza-di-Sale
    n’aura enuig e pesança,ne avrà noia e tristezza
    e tuit mei amich corale tutti i miei amici del cuore
    n’auran gaug e alegrança.ne avranno gioia e allegria.
    Si mon caval trot’ a lega,Se il mio cavallo trotta a lega,
    no m’en fal, so•us assegur,non mancherò, ve lo assicuro,
    qu’en tal luec no l’acossega,di condurlo presso quel luogo,
    si no trop qui m’en atur.se non trovo chi mi fermi.
    Que no•y ha auzberch tan durChé non c’è usbergo tanto duro
    que mon bran d’acer cossegada impedire al mio brando d’acciaio
    que jos la carn no•l pejur,di far danno giù alla carne,
    si a Deu merce no pregha.se a Dio non domanda pietà.
    Un’ e doas e tres et quatre,Uno, due tre e quattro,
    cinc e seis e set e uit,cinque e sei e sette e otto,
    m’avenc l’autrer a combatreho combattuto l’altro giorno
    ab ma osta tota nuit,con la mia ospite tutta la notte
    e si•m trobes flac ni buit,e se mi avesse trovato fiacco o vuoto,
    per la fe che•us dey, bel fratre,per la fede che vi debbo, bel Fratello,
    io agra tost mon pan cuit,avrei tosto cotto il pane
    e puis fora fins de batre.e sarei fine battitore.
    Ma hosta no fo pas lota,La mia ospite non fu pigra,
    e parec o al montar:e lo mostrò al montare:
    si no•m tengues a sa cota,se non mi fossi retto alla cotta
    viatz m’agra fait tombar,subito mi avrebbe fatto cadere,
    c’axi•m fazia plombarmi avrebbe fatto piombare
    com si fos una pilota;come fossi una palla;
    per que fay mal cavalgarperché non si può cavalcare
    en bestia c’axi trota.una bestia che trotta così.
  • Guillem de Berguedà, Cantarey mentre m’estau

    Guillem de Berguedà, Cantarey mentre m’estau

    Cantarey mentre m’estau
    chantaret bon e leiau
    que xanton macips de Pau,
    del fals veill coronat bisbau
    e d’En Folcalquer lo barrau:
    can re·ls sofrain dinz lur ostau
    van sojornar en cort reiau.
    Puis van xantan liridunvau,
    balan, notan gent e suau.

    Ges al rey no deu pesar
    si·ls faz’en sa cort estar
    ses prometre e ses dar,
    c’axi·s tenria un joglar,
    que als no queron mas manjar;
    mas eu los hi farey peccar
    si·n cort van per estalviar.
    Puys van xantan liridunvar,
    balan, notan autet e clar.

    Per ço l’apel Folcalquer,
    car traic son cavalier,
    mon Sabata de Cauder,
    can l’ac covidat el Soler
    e·l fetz manjar ab sa muyler.
    E gart nos Deus e San Leider
    de pebrada d’aital morter.
    Puis van xantan liridunver,
    balan, notan, que mal non m’er.

    Per ço l’apel Folc Ramon,
    car non ha en tot lo mon
    de traicio tan fagon;
    e·N Peyre de Berga·l segon.
    Per qu’eu en chant e·n bon e·n gron,
    et bais cascu la mul’el con
    si a traicio no respon.
    Puis van xantan liridonvon,
    balan, notan, q’aiço·ls coffon.

    Mon chantar volvv en biaix
    e met l’a·N Folc el caraix
    e valgra li mais us laix;
    e pes del joy de que engraix,
    que·m ten joyos e·m vest e·m paix,
    e no son chuflas de Roaix,
    c’ans es jois novels c’ades naix.
    Puis van xantan liridunvaix,
    balan, notan autet e baix.

    Dona, no·us cugetz qu’eu m’en laix
    mentr’aia una dent el caix.

    Traduzione

    Canterò mentre riposo
    la canzonetta buona e leale
    che cantano i bambini di Pau,
    sul falso e vecchio vescovile
    e su Folcalquero, il barile:
    quando manca qualcosa al loro ovile
    vanno a stare alla corte reale.
    Poi van cantando lirindunvale
    ballando, suonando suono soave.

    Affatto al re deve pesare
    se alla corte li fa stare
    senza promettere né dare
    come farebbe col giullare,
    non vogliono altro che mangiare;
    ma io ce li farò beccare,
    se in corte vanno a risparmiare.
    Poi van cantando lirinduvare
    ballando, suonando note alte e chiare.

    Per ciò lo chiamo Fol-canchèro
    perché tradì il suo cavaliere,
    il mio Sabata di Cauder,
    invitandolo a Soler
    e lo fece mangiare a sua mogliera.
    Ci guardi Dio e San Desiderio
    dalla pepata di tal mortaio.
    Poi van cantando lirinduvaio
    ballando, suonando non avrò danno.

    Per ciò lo chiamo Folco Raimondo
    perché nessuno in tutto il mondo
    di tradire è sì fecondo
    Peire di Berga è il secondo,
    così ne canto e grugnendo affondo:
    baci la mula nel conno
    chi di tradimento non risponde.
    Poi van cantando liridonvonde
    ballando, suonando che li confonde.

    Il mio canto storto biascico
    e lo sbatto a Folco in faccia
    che avrebbe preferito un lascito;
    invece penso alla gioia per cui ingrasso
    che mi rende felice, mi veste e mi pasce
    e non sono i tartufi di Edessa,
    ma un a nuova gioia che nasce.
    Poi van cantando liridunvasce
    ballando, suonando alto e basso.

    Donna, non crediate che la smetta,
    finché avrò denti in bocca.

    Rifacimento moderno di Francesc Ribera “Titot”
    Musica di Biel Majoral

    Cantaré perquè em complau
    un romanç que els nois de Pau
    van cantant amb so que atrau
    del vell bisbe, mestre del frau
    i d’en Ramon Folc, el gripau:
    quan veuen que el rebost decau
    se’n van a viure allà a Palau.
    Marxen cantant lirindunvau,
    ballant, tocant gentil i suau.

    Sembla que al rei tant li fa
    si a la cort els deixa estar
    sense que hagin de pagar,
    -igual com faria un joglar-
    van allà només a endrapar;
    si ho fan sols per estalviar
    ara jo els ho penso esguerrar.
    Marxen cantant lirindunvar,
    ballant, tocant altet i clar.

    Per’xò li dic “Trifolcguer”,
    va trair el seu cavaller
    en Sabata de Calder
    quan va convidar-lo al Soler:
    poc més i es menja sa muller.
    Que Sant Lleïr ens guardi a recer
    de pebrada de tal morter.
    Marxen cantant lirindunver,
    ballant, tocant, i em sembla bé.

    Per’xò li dic Foll Ramon
    perquè no hi ha en tot el món
    cap traïdor més pregon;
    i En Pere de Berga, el segon.
    Jo canto i bramo aquest afront;
    i que a la mula besi el cony
    qui a traïció no respon.
    Marxen cantant lirindonvon,
    ballant, tocant, que això els confon.

    Ara del cant giro l’eix
    contra en Folc, el sac de greix,
    que una corda al coll mereix;
    penso en la joia que, amb escreix,
    feliç em fa, em vesteix i em peix,
    no són mentides, tanmateix,
    sinó una joia que reneix.
    Marxen cantant lirindunveix,
    ballant, tocant, amb aquest deix.

    Mentre una dent em quedi al queix
    diré, Senyora, això mateix.

    Traduzione

    Canterò perché mi fa piacere
    una romanza che i ragazzi di Pau
    cantano con un suono che attira
    il vecchio vescovo, maestro di frodi
    e Raimondo Folco, il rospo:
    quando vedono che la dispensa decade,
    vanno a vivere lì a Palazzo.
    Marciano cantando lirindunvau,
    ballando, suonando in modo gentile e sommesso.

    Sembra che al re importi così tanto
    se li lascia stare a corte senza dover pagare,
    proprio come farebbe un menestrello,
    e loro ci vanno solo per ingozzarsi;
    se lo fanno solo per risparmiare
    adesso penso di fregarli.
    Marciano cantando lirindunvar,
    ballando, suonando in modo acuto e chiaro.

    Per questo lo chiamo “Trifolcguer”,
    ha tradito il suo cavaliere
    don Sabata de Calder
    quando lo ha invitato al Soler:
    ancora un po’ e si mangia la moglie.
    Che Saint Lleïr ci tenga lontano
    dall’impepata di tal mortaio.
    Se ne vanno cantando lirindunver,
    ballando, suonando, e mi sembra bello.

    Ecco perché lo chiamo Folle Raimondo
    perché non c’è traditore al mondo più profondo;
    e don Pere de Berga è il secondo.
    Canto e bramisco quest’affronto;
    e lascia che alla mula baci il conno
    chi del tradimento non risponde .
    Se ne vanno cantando lirindonvon,
    ballando, suonando, che questo li confonde.

    Ora del canto giro l’asta
    verso don Folco, sacco di grasso,
    che merita una corda al collo;
    Penso alla gioia che, oltremodo,
    mi rende felice, mi veste e pasce,
    non sono bugie tuttavia,
    ma una gioia che rinasce.
    Se ne vanno cantando lirindunveix,
    ballando, suonando, con questa cadenza.

    Finché mi rimarrà un dente nel mento,
    dirò, signora, sempre questo.

    Francesc Ribera “Titot”

    Biel Majoral

    La parodia di Raimon de Durfort

    I. 
    Ben es malastrucx dolens      
    lo Caersis a sos grens,
    quan soanet aitals presens;
    ben par que•l cosselhet sirvens:
    ia elh non sia mos parens,
    que s’elha m’en mostres dos cens,
    yeu los cornera totz iauzens,
    e pueys fora ricx e manens,
    neis ei refermera las dens.

    II.
    Non es bona dompn’ el mon
    si•m mostrava•l corn e•l con
    tot atretal com ilh se son,
    e pueys m’apellava “•N Raimon,
    cornatz m’ayssi sobre•l reon”,
    qu’ieu no•I baysses la car’ e•l fron
    com si volgues beure en fon:
    drutz qu’a sa dompn’ ayssi respon,
    ben tanh que de son cor l’aon.

    III.
    Caersinatz, tracher sers,
    tu que d’aquest plag mal mers,
    gartz, perque no•i tornas enquers
    cornar a dreg o a envers?
    Que•l corns es ben lavatz e ters:
    yeu en cornera cen milhers,
    e si n’i a assatz de fers;
    si fossetz pendutz a Bezers,
    no feir’ om tan chansos ni vers.

    IV.
    Pus etz malastrucx sobriers
    non es Arnautz l’escoliers,
    cui coffondon dat e tauliers
    e vay coma penedensiers
    paupres de draps e de deniers,
    qu’yeu li donera grans loguiers
    per so qu’yeu lay cornes primiers,
    e cornera mielhs que porquiers
    ni Porta Joia l’escassiers.

    V.
    Arnaut escolier, vay mi
    ancanog o al matin
    a Na Enan, e digas li
    que Raimons de Durfort li di
    que ben es pres del Caersi
    quan li mostret son raboi,
    mas grieu li responder’ ayssi,
    ans i cornera ses tai
    plus fresc que sirvens apezi.

    VI.
    Bernat de Cornilh, ye•us desfi,
    que aguetz del cornar fasti;
    per Mon Truc Malec, N’Audoi,
    te puesc desfiar e per mi.